In questa fase di emergenza sorge la necessità, per imprese e lavoratori, di interpretare i diversi provvedimenti e protocolli assunti dal Governo per la tutela della salute pubblica, al fine di comprendere come il mondo del lavoro, prima ancora di scoprire cosa ci riserverà il futuro, sia già sensibilmente cambiato.

Sul fronte della sicurezza sul lavoro, ci si domanda in particolare se a seguito della sottoscrizione, da parte del Governo e delle parti sociali, del Protocollo del 14/3/2020 per il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro, occorra intervenire o meno sul Documento di Valutazione dei Rischi.

Infatti, all’indomani dell’esplosione dell’epidemia del virus Sars-CoV-2 è emerso il problema relativo all’eventuale necessità di aggiornare la valutazione dei rischi, la quale, come prevede l’art. 29 co. 3 d.lgs. n. 81/2008, “deve essere immediatamente rielaborata (…) in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori (…), con il conseguente aggiornamento delle misure di prevenzione”.

Una valutazione dei rischi che rappresenta la “valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la propria attività (…)” (art. 2 lett. q d.lgs. 81/2008).

A sostegno della tesi, ad oggi maggioritaria, che escluderebbe la necessità di aggiornamento del DVR[1] si pone sostanzialmente il seguente argomento.

Il riferimento operato dall’art. 28 a “tutti i rischi” per la salute e sicurezza dei lavoratori non varrebbe a identificare una gamma indefinita di eventualità pregiudizievoli, ma solo quelle connesse all’attività produttiva, i “rischi professionali”, come indicato dalla definizione di “servizio di prevenzione e protezione” contenuta nell’art. 2 co. 1 lett. l) del d.lgs. 81/2008.

Ciò premesso, a conferma della tesi secondo cui il DVR non andrebbe aggiornato con il rischio biologico da contagio di Covid-19, si evidenzia come, fatte salve le attività lavorative elettivamente destinate a entrare direttamente o indirettamente in contatto con l’agente biologico (ospedali, pronto soccorso, laboratori), negli altri casi non si tratterebbe di un rischio professionale, ma di un rischio generico, equamente distribuito fra l’intera popolazione.

A fronte di tale argomento, per quanto fondato, ci preme tuttavia proporre alcune brevi riflessioni di segno contrario.

In via preliminare, occorre evidenziare che la Commissione Interpelli ha già avuto modo di precisare che l’analisi dei rischi prevista dall’art. 28 del D.Lgs. 81/2008 deve comprendere non solo i rischi professionali, ma anche “l’analisi di tutti i potenziali e peculiari rischi ambientali legati alle caratteristiche del Paese in cui la prestazione lavorativa dovrà essere svolta, quali a titolo esemplificativo, i cosiddetti «rischi generici aggravati», legati alla situazione geopolitica del Paese (es. guerre civili, attentati, ecc.) e alle condizioni sanitarie del contesto geografico di riferimento, non considerati astrattamente, ma che abbiano la ragionevole e concreta possibilità di manifestarsi in correlazione all’attività lavorativa” (Interpello n. 19841 del 25/10/2016).

Occorre quindi stabilire se effettivamente vi siano attività lavorative esposte a un rischio generico aggravato, ovvero se, fatta eccezione per quelle esposte a rischio professionale, tutte le altre siano esposte a un rischio generico equamente distribuito tra l’intera popolazione.

Ebbene, considerato che l’odierna emergenza sanitaria mostra senza troppi indugi di voler modificare stabilmente, oltre al nostro stile di vita, anche i modi e le forme del lavoro, si ritiene che ogni valutazione intorno all’effettività del rischio da contagio nei luoghi di lavoro debba essere particolarmente ponderata.

Sebbene infatti sia stata dichiarata la pandemia e il virus sia diffuso in tutto il paese, non in ogni luogo del paese, come noto, il virus è diffuso allo stesso modo, se solo si pensa alla gravità del numero di contagi che si registrano in Lombardia rispetto al resto d’Italia.

Allo stesso modo, limitare il rischio da contagio rilevante ai fini della valutazione dei rischi alle sole attività sanitarie pare inopportuno, poiché vi sono attualmente molti settori del terziario soggetti a un notevole aggravamento del rischio da contagio strettamente connesso alle condizioni ambientali in cui viene svolta l’attività lavorativa e al tipo di mansioni da eseguire: è il caso dei lavoratori delle Forze dell’Ordine, dei servizi portuali e aeroportuali, degli operatori ecologici, dei servizi socio assistenziali e si potrebbe andare oltre con l’elenco.

Se è vero, quindi, come è vero, che l’eventualità di contagio da Covid-19 non può essere considerata, fatte salve le ipotesi già citate, un rischio professionale di tutte le aziende, è altrettanto vero che lo stesso rischio non può essere indistintamente ricondotto, per ogni attività non sanitaria, nel vacuo paradigma del rischio generico.

Inoltre, l’art. 29 co. 3 d.lgs. 81/2008 stabilisce che in occasione di modifiche del processo produttivo o della organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori, come quelle imposte dal Protocollo e dai provvedimenti che si sono susseguiti nelle ultime settimane, la valutazione dei rischi deve essere rielaborata e aggiornata.

Nell’osservanza di detti provvedimenti, infatti, le imprese dovranno assicurare in ogni momento della giornata lavorativa la distanza di almeno 1 metro fra i lavoratori, che comporterà la necessità di ridisegnare le modalità di ingresso e di uscita dai locali di lavoro, di riorganizzazione delle mense e degli orari di pausa.

Ma non solo.

Vi saranno realtà aziendali in cui, al fine di garantire la sicurezza dei lavoratori, si dovrà ricorrere alla turnazione del personale dipendente e all’uso dello smartworking, con conseguente rimodulazione dei livelli produttivi.

Anche solo per questo, sarà necessario per queste aziende aggiornare la propria valutazione dei rischi.

Lo smartworking e il telelavoro sono infatti modalità di esecuzione della prestazione lavorativa regolate dagli artt. 3 co. 10 e 174 d.lgs. 81/2008, in materia di uso di “attrezzature munite di videoterminali”, ove si dispone la necessità di procedere alla valutazione dei rischi specifici per il tipo di mansione svolta.

In conclusione, si ritiene che la tesi secondo cui il rischio da contagio da Covid 19 non assumerebbe rilevanza ai fini del procedimento di valutazione dei rischi, per quanto ragionevole, si caratterizzi per un eccesso di formalismo, a seguito del quale, riconosciuto il rischio professionale alle sole attività sanitarie, si qualifica come “rischio generico” tutto il resto, senza distinzione in ordine all’aggravamento del rischio che tali ulteriori attività lavorative potrebbero determinare per la salute dei lavoratori.

Al contrario, l’inizio della cosiddetta “fase 2” dell’emergenza, quella deputata a ordinare una prudente convivenza con il virus, dovrebbe essere accompagnata da un approccio maggiormente ponderato sul tema della gestione del rischio da contagio nei luoghi di lavoro, al fine di uscire dalla logica “emergenziale” che ha caratterizzato le prime settimane della crisi, con la sottoscrizione del Protocollo, e individuare le prassi operative più efficaci per garantire la salute dei lavoratori.

[1] Comunicazione del Direttore dell’Ispettorato nazionale del Lavoro, avente a oggetto “Adempimenti datoriali-valutazione rischio emergenza coronavirus”, del 13.3.2020 / Michele Lepore, “Sui rischi il datore applica le leggi speciali”, il Sole 24 Ore, 18-3-2020, p. 33.

Avv. Fabio Savoldelli