L’obbiettivo di questo lavoro è quello di proporre una lettura, dal punto di vista strettamente pratico, del Protocollo condiviso per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus nei luoghi di lavoro “non sanitari”, sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali il 14/3/2020, letto alla luce dei precedenti dpcm, soprattutto quello dell’11/3/2020, che stabilisce quali sono le attività ritenute non essenziali, che devono, o dovrebbero, per ciò stesso essere sospese.

Ebbene, le attività ad oggi “non essenziali” sono quelle indicate nel dpcm 11/3/2020, all’art. 1 n. 1 e 2. Vale a dire, in buona sostanza, il commercio al dettaglio, i mercati, i servizi alla persona (parrucchieri, barbieri, estetisti) e la ristorazione.

Tutte le altre attività, comprese le attività produttive, sono considerate essenziali e possono proseguire.

Ma a quali condizioni?

Il Governo lo definisce nel Protocollo del 14/3/2020.

Prima di affrontare le singole misure di sicurezza, il documento in esame fissa tuttavia un principio, che deve essere tenuto in considerazione nell’interpretazione delle singole norme che lo compongono: la prosecuzione delle attività produttive può avvenire solo in presenza di condizioni che assicurino alle persone che lavorano “adeguati livelli di protezione”, che verranno di seguito esposti.

In secondo luogo vale un’ulteriore considerazione.

Se l’azienda non riesce o non può assicurare l’adozione delle misure di sicurezza descritte nel Protocollo, fra tutte, ineludibili, l’uso dei dispositivi di protezione individuale e/o il mantenimento della distanza di almeno 1 metro tra i lavoratori in ogni momento della giornata lavorativa, l’attività deve essere sospesa.

Con questo obbiettivo, il Governo si è infatti impegnato anche a garantire il ricorso agli ammortizzatori sociali al fine di permettere alle imprese, all’occorrenza, di ridurre o sospendere l’attività lavorativa fino all’implementazione delle misure di sicurezza stabilite dal Protocollo.

Inoltre, tra le premesse, si precisa che deve essere attuato il massimo utilizzo del lavoro agile (o smart working). Questo non significa che al datore di lavoro è demandata la valutazione dell’opportunità di adibire o meno i suoi dipendenti allo smart working, ma che, laddove ciò sia possibile, l’azienda è obbligata a farvi ricorso.

I punti trattati nel protocollo sono 12.

Al punto 1) si trattano i doveri di informazione del personale.

Questo dovere, previsto anche dall’art. 36 d.lgs. 81/08, impone al datore di lavoro di predisporre tutti gli strumenti necessari a informare il lavoratore dei rischi non solo relativi alle peculiarità della propria mansione, ma nello specifico delle misure di sicurezza previste Protocollo.

Ciò riguarda non solo i dipendenti, ma anche i soggetti esterni o clienti che hanno accesso nei locali di lavoro: pensiamo alla grande distribuzione, dove insieme ai dipendenti c’è la presenza della clientela.

Ebbene, anche la clientela deve essere informata delle misure di sicurezza vigenti sul luogo di lavoro, in quanto la mancata conoscenza di tali norme mette a repentaglio sia la salute del lavoratore, sia quella del cliente.

Pertanto, sarà opportuno che nei locali siano affissi cartelli e informative in posti visibili a tutti.

Il Protocollo tratta inoltre le modalità di ingresso in azienda.

Il datore di lavoro dovrà evitare che si formino assembramenti, in ingresso e in uscita, dai luoghi di lavoro. Per quanto abbiamo avuto modo di sapere, alcune aziende si stanno organizzando per regolare l’accesso in azienda lungo un arco temporale di mezz’ora, un’ora, al fine di diluire nel tempo la presenza contemporanea di persone nei pressi dei luoghi di lavoro.

Questi tempi potranno espandersi ulteriormente se in azienda si organizzano presidi infermieristici per misurare la temperatura corporea dei dipendenti in entrata.

A questo proposito, il protocollo fa riferimento ad alcuni accorgimenti in materia di trattamento dei dati personali che devono essere adottati dal datore di lavoro al momento della misurazione della temperatura corporea dei dipendenti: fra tutti, il divieto di registrare il dato, salvo che la temperatura non sia superiore ai 37,5°.

In questo caso il dato potrà essere registrato, ma utilizzato esclusivamente per le finalità di prevenzione dell’emergenza sanitaria da Covid-19, e potrà essere comunicato esclusivamente all’Autorità sanitaria, che di concerto con il medico competente procederà a un’indagine al fine di accertare i tipi di contatto che il lavoratore presuntivamente contagiato abbia avuto nei giorni precedenti.

Si tenga presente che la finalità del trattamento dei dati personali come sopra descritto, secondo quanto stabilito dal Protocollo, è solo e soltanto la prevenzione del contagio da Covid-19.

Pertanto, un utilizzo dei dati sanitari del personale dipendente che non sia strettamente limitato al perseguimento di tale finalità costituirebbe un trattamento illecito di dati personali ai sensi dell’art. 5 lett. b) reg. UE 679/16, che stabilisce il principio di limitazione delle finalità, oltre a integrare, se realizzato a fini discriminatori, l’ipotesi di reato di cui all’art. 167 d.lgs. 196/2003.

Il Protocollo tratta ancora le modalità di accesso in azienda dei fornitori esterni.

Anche in questo caso (si pensi ai lavoratori della logistica, che per la peculiarità delle loro mansioni, sono spesso obbligati a fare ingresso nelle aziende ove è previsto lo scarico della merce trasportata), devono essere assolutamente ridotti al minimo i contatti tra persone, possibilmente, nel caso della logistica, evitando di scendere dall’automezzo.

Se si tratta invece di ditte in appalto che lavorano all’interno dei locali di un’altra azienda, anche alla presenza del personale del committente, gli stessi dovranno sottostare alle regole aziendali previste dal committente, anche in riferimento alle modalità di entrata ed uscita in azienda.

A ciò si aggiunga che laddove si operi in presenza di personale appartenente a più imprese, il Coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione (CSE), dopo avere acquisito dall’impresa la valutazione del rischio riferita all’emergenza in essere, predispone una procedura volta ad integrare il piano di sicurezza e coordinamento (PSC) con il tipo di rischio da contagio di Covid-19, condividendola con il Responsabile dei Lavori.

In tale aspetto si inserisce tuttavia la problematica dell’eventuale aggiornamento del documento di valutazione dei rischi (DVR) da parte del datore di lavoro, da mettere a disposizione del Coordinatore per la sicurezza, affinchè gestisca il rischio da contagio determinato dall’interferenza di più attività lavorative.

Per ragioni che si avrà modo di affrontare in un prossimo contributo noi riteniamo che il rischio da Covid-19 costituisca un rischio generico aggravato, e come tale debba essere valutato in sede di valutazione dei rischi, con un aggiornamento del documento ovvero con una semplice integrazione contenuta in un addendum a parte, che preveda, quantomeno, le modalità di applicazione delle direttive pubbliche contenute nel Protocollo.

Al punto 4, si impone l’obbligo di pulizia e sanificazione dell’azienda.

La pulizia dei locali, degli ambienti e delle aree comuni deve essere garantita con frequenza giornaliera, mentre la sanificazione di uffici, reparti produttivi, pc, tastiere, mouse e ogni altro locale o oggetto che entra in contatto con il personale, deve essere fatta periodicamente.

In mancanza di ulteriori specificazioni circa il significato del termine “periodicamente”, è lecito ritenere che l’intervallo di tempo che può intercorrere tra gli interventi di sanificazione dipenda dalla durata dell’effetto antivirale dei prodotti utilizzati nell’ambito di ciascuno di questi interventi.

Sarà quindi demandato al datore di lavoro, pur nell’attuale clima di incertezza in ordine alla necessità di aggiornare o meno il DVR, l’onere di valutare il fattore di rischio costituito dall’efficacia temporale degli interventi di sanificazione ed adottare le misure necessarie a prevenirlo.

Vi è poi un problema di ordine pratico, quello dell’approvvigionamento dei materiali di sanificazione, che sul mercato si stanno esaurendo.

In questo caso, lo abbiamo ricordato in premessa, il Protocollo vieta il proseguimento dell’attività, la quale dovrà per ciò essere sospesa ed eventualmente ripresa solamente una volta ripristinate le condizioni di sicurezza per i lavoratori.

Un tema molto discusso è poi quello riguardante i Dispositivi di protezione individuale.

Per chiarezza, le mascherine si dividono in DPI “Dispositivi di Protezione Individuale” e “mascherine Medicali”, dette “chirurgiche”.

I DPI in commercio, di qualunque tipo o categoria essi siano, devono presentare la marcatura CE.

Fra i DPI, il tipo di maschere filtranti richieste per evitare il contagio da Coronavirus (classificato come “rischio biologico”), sono regolate dalla norma europea UNI EN 149.

Tale norma, a seconda dell’efficienza filtrante, classifica le maschere in FFP1, FFP2, FFP3.

Le “mascherine chirurgiche” svolgono una differente funzione rispetto ai DPI.

Esse hanno come caratteristica quella di limitare la diffusione di agenti biologici nell’atmosfera circostante. Queste mascherine, le cui caratteristiche sono diverse da quelle delle citate FFP2 o FFP3 possono, quindi, evitare che il portatore diffonda il contagio, ma non proteggono lo stesso adeguatamente dal contagio di provenienza altrui.

Ciò detto, il Protocollo prevede che l’adozione dei dispositivi di protezione individuale (dpi FFP2, FFP3) è fondamentale, ma che “questa è legata evidentemente all’approvvigionamento sul mercato”.

A causa quindi delle difficoltà di approvvigionamento il Governo ha stabilito che possano essere usate anche le mascherine chirurgiche, in mancanza d’altro.

Tale decisione è stata confermata con il d.l. del 17 marzo 2020 n. 18, che ha previsto la possibilità di utilizzare anche mascherine prive del marchio CE e quindi della certificazione di qualità.

Quindi, in attesa di un intervento pubblico finalizzato a risolvere il problema dell’indisponibilità sul mercato di dispositivi adeguati alla tutela della salute dei soggetti più esposti al contagio, sarà essenziale che fra le misure di sicurezza utilizzate dal datore di lavoro, vi sia la predisposizione di un sistema che eviti sistematicamente che i lavoratori possano avvicinarsi a meno di un metro uno dall’altro o con la clientela.

E questo, in qualsiasi locale frequentato dai lavoratori: anche nelle mense, negli spogliatoi e nei locali adibiti alla pausa, determinando la necessità per l’azienda di modificare radicalmente l’organizzazione del lavoro e quindi, anche in questo, secondo quanto previsto dall’art. 29 co. 3 d.lgs. 81/2008, il Documento di Valutazione dei Rischi.

In mancanza di questi adeguamenti organizzativi (cui possono essere ricondotti altresì gli obblighi previsti dal successivo punto 7 del Protocollo in ordine alla “gestione degli spazi comuni”), iscritti o no, per il momento, nell’aggiornamento al DVR, l’attività lavorativa deve essere sospesa.

A questo proposito, i lavoratori devono sapere che l’art. 44 d.lgs 81/81 prevede che il lavoratore il quale, in caso di pericolo grave, immediato e non evitabile, si allontana dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, non può subire pregiudizio alcuno e deve essere protetto da qualsiasi conseguenza dannosa.

Oltre alla contrattazione sindacale, i lavoratori devono quindi tenere presente che possono anche ricorrere a questo strumento, poiché un eventuale provvedimento sanzionatorio adottato nei loro confronti sarebbe da considerare discriminatorio.

Da ultimo, il Protocollo tratta il tema della sorveglianza sanitaria.

Sul punto si registrano alcune divergenze, tra quanto contenuto nel Protocollo, circa la necessità di proseguire con visite le periodiche dei lavoratori da parte del medico competente, ed alcune ATS, fra tutte l’ATS Insubria, secondo le quali le visite periodiche vanno rinviate alla cessazione dell’emergenza sanitaria.

Ebbene, si ritiene del tutto condivisibile quanto contenuto nel Protocollo, in riferimento all’utilità che può assumere la sorveglianza sanitaria periodica per intercettare possibili casi e sintomi sospetti del contagio, oltre all’informazione e alla formazione che il medico competente può fornire ai lavoratori per evitare la diffusione del contagio.

È necessario quindi che gli RLS e gli RLST pretendano dal datore di lavoro la presenza del medico competente in azienda per le visite periodiche, anche al fine di concordare con l’azienda le strategie di tutela della salute dei soggetti portatori di patologie attuali o pregresse che li rendono maggiormente esposti al rischio di contagio del Covid-19.

La situazione, come noto, è in costante evoluzione.

Si registra infatti, alla data di scrittura del presente articolo, 19/3/2020, la richiesta al Governo, da parte del Governatore della Lombardia, di sospendere ogni attività produttiva non strettamente connessa al soddisfacimento di esigenze primarie della popolazione.

Per tale ragione, ulteriori modifiche alla legislazione di emergenza che dovessero intervenire saranno oggetto di eventuali nuovi contributi.

avv. Fabio Savoldelli – arch. Francesca Savoldelli